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Dove può vivere un cieco che le api inseguono?

(dal Libro delle domande di Pablo Neruda)


Era cieco dalla nascita. Nonostante tale menomazione invalidante e la declinazione del suo nome potesse fuorviare, Amarillo aveva un carattere talmente dolce che sua madre, non di rado, aveva avuto la tentazione di usarne una cucchiaiata nelle sue torte, al posto dello zucchero. Come la maggior parte delle persone cieche, Amarillo già a otto anni aveva sviluppato le altre percezioni sensoriali molto più della media dei vedenti, tanto da usarle in sostituzione della vista di cui era privo. Grazie a tali super doti, oltre a muoversi con naturalezza negli ambienti che conosceva, il bambino era in grado di sentire i più flebili brusii persistenti a decine di metri da lui.

Uno dei sensi che Amarillo aveva evoluto, in maniera a dir poco esagerata, aveva dato la spinta fondamentale al maturare del suo carattere amabile: l’olfatto. Al solo pensiero del dolce, ne inseguiva estasiato la scia immaginaria, se lo gustava con la fantasia, lo sentiva spalmato sulla lingua, appiccicato tra le dita, come linfa e ragione essenziale della vita. E siccome, quando il diavolo ci vuole mettere lo zampino tante volte si dimentica di ritirare le unghie, aveva scoperto, più che altro sentito, un brusio familiare che precedeva l’inconfondibile, svenevole aroma del suo sapore preferito. Il vicino di casa aveva delle arnie.

Nonostante le raccomandazioni della mamma, Amarillo non aveva resistito. Approfittando dei momenti in cui le api erano al lavoro nei campi, muovendosi in un territorio che conosceva palmo a palmo, aveva preso a rubare miele alle api. Inutile dire il solluchero, il godimento, lo svenimento delle sue papille nel leccarsi le mani fino all’esaurimento di almeno tre dei sette strati di cute.

Ruba un giorno, ruba due, al terzo dì le api, lavoratrici indefesse, ma di certo non fesse, smisero di ronzare e aspettarono il ladruncolo al varco. Non aveva ancora allungato la mano per introdurla nella prima casetta delle api che si scatenò il finimondo. Inviperite, le operose padrone di casa avvolsero il ragazzino in una nube, pronte a conciarlo per le feste. Per fortuna Amarillo aveva sempre in tasca un pezzetto della crostata della mamma e veloce lo lanciò in aria. Approfittando dello sbandamento momentaneo delle api, attirate dall’irresistibile profumino, il ragazzo girò in fretta i tacchi e si rifugiò nel capanno degli attrezzi del vicino.

Ancora ansimante per il pericolo scampato, grande fu la sua sorpresa nel sentire un venticello di profumi salire su su per le narici, esitare un po’ sulla lingua prima di addentrarsi giù giù per l’esofago, in un tripudio melodioso di effluvi sensitivi. Iniziò a tastare i bordi del magazzino e, al tocco super allenato, intuì le sagome di mensole ben profilate. Sopra i ripiani tastò forme panciute familiari: barattoli. Dentro i barattoli… delizia: marmellata! Di ciliegie, di mele, di albicocche di fichi e di ogni altro ben di Dio prodotto dalla fantasia del suo vicino.

Amarillo decise che quella sarebbe divenuta la sua casa. Sparì, e nessuno più lo vide... almeno finché l’ultimo vasetto di vetro non mostrò la sua trasparenza al mondo e al ditino di Amarillo. Quello che avvenne poi è un’altra storia che sa raccontare bene la sua mamma.

© Cesare Ferrari

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