“Mi chiamo Giacomo e ho trent’anni. Sto tornando a casa con mia moglie. La speranza di ritrovarmi l’ha guidata alla stazione dell’Ortica dove ci hanno abbandonati lì, in un binario morto, stipati su di un carro bestiame...

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La Liberazione

“Mi chiamo Giacomo e ho trent’anni. Sto tornando a casa con mia moglie. La speranza di ritrovarmi l’ha guidata alla stazione dell’Ortica dove ci hanno abbandonato lì, in un binario morto, stipati dentro un carro bestiame. Camminiamo adagio in questa giornata della Liberazione. Ci siamo abbracciati… ci siamo baciati a lungo nell’euforia del momento, mentre in piazza del Duomo risuonavano discorsi forti, rivolti alla nazione. Fatico a riprendere il nostro dialogo, interrotto da più di tre anni di prigionia… per noi… per me, libertà significa solo essermi fatto largo a gomitate nella ressa del marciapiede fino a quella mano alzata che mi aveva riconosciuto tra centinaia di volti alla ricerca dei loro cari…”


 

“Mi chiamo Rosa, ho riabbracciato con passione il mio Giacomo. Quasi quattro anni di lontananza sono interminabili e sto cercando di trovare un varco nel muro invisibile che impedisce il suo racconto. So che dovrò essere paziente e lo dovranno essere anche le mie figlie che faticheranno a riconoscere il padre… forse lo eviteranno, procurandogli nuove ferite nel cuore. Per me libertà in questo giorno significa poter circolare di nuovo con la bici, lasciando tornare pian piano i sensi che erano stati messi in disparte dall’udito, sempre teso a sentire la voce lugubre delle sirene che annunciavano nuove angosce, nuove bombe, nuove rovine, nuovi drammi, nuova fame…”


 

“Sono Giacomo e ho centotre anni. La voce mi trema, ma l’emozione che mi provoca rivedere la foto che mi sta mostrando questo mio pronipote, mi fa… mi viene… oggi ricorre l’anniversario della Liberazione. Il cuore sussulta mentre il ragazzo mi incalza perché vuole sapere… e allora cedo, sì, a lui posso dirlo, i giovani devono sapere… per evitare che… non avrei altra ragione per raccontare quel buco nero della mia vita!

«Il nostro battaglione sbarca a Tirana nell’aprile del 1941. Ci trasferiamo a marce forzate lungo la costa sulle colline di Dubrovnik. L’obiettivo italiano è attaccare la Jugoslavia da sud, mentre le forze tedesche la invadono da nord. Fino ad ora non abbiamo sparato nemmeno un colpo. Il nostro capitano ci concede di recarci a gruppetti in città che è bella, accogliente, donne disponibili e mare che è lo stesso nostro d’Italia. Le truppe regolari slave sono impegnate sul fronte tedesco, ma qualcuno svela la nostra presenza a un manipolo di patrioti della resistenza. Ci attaccano di notte, di sorpresa. Nonostante la nostra superiorità numerica, nessuno ha il coraggio di opporsi, l’irruzione improvvisa e la nostra impreparazione militare ci rendono incapaci di reagire… non siamo eroi. Rimaniamo prigionieri per alcuni giorni e poi uno dei volontari del gruppo slavo arriva trafelato nell’accampamento; si sentono spari in vicinanza, irrompono i soldati tedeschi, i guerriglieri jugoslavi alzano le mani. Nonostante le proteste del nostro capitano ci caricano tutti su una colonna di camion e ci trasferiscono in Germania in un campo di concentramento. Per noi la guerra è finita in un lampo e senza colpo ferire.

Tre anni e mezzo di prigionia non sono solo privazione della libertà. Sono fame, freddo, pidocchi che ti succhiano il sangue, chili e chili di patate pelate e bucce nascoste sotto terra per essere recuperate quando i crampi della fame divorano lo stomaco, lacrime che sbiadiscono le foto dei tuoi cari, voglia di fare l’amore, fare l’amore da soli fino a rasentare la schizofrenia, latrine da costruire, da svuotare, da usare, febbri da cavallo, malattie, morte di chi ti dorme accanto, disperazione che rende insonni le notti, obbligo di lavorare senza compenso e senza un fine, infortuni sul lavoro, ferite che si infettano per mancanza d’igiene…

Ma è la denigrazione e lo spregio di te come persona che ti fa sentire figlio di un Dio minore, una colpa da celare per sempre».

Ho finito, ho riversato il mio torrente di parole con la stessa forza delle sue rapide… sento che la corrente porta con sé parte del mio fardello e rende giustizia, oggi ricorrenza della Liberazione, alla foto che ha motivato il mio sfogo. Spero rimanga memoria in lui, nuovo virgulto del mio albero…”.


 

“Sono Rosa e ho cent’anni. Ho atteso, atteso e ancora atteso… anch’io ho ascoltato il racconto e, finalmente, capisco…”.

 

© Cesare Ferrari 

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