La prima volta che siamo stati a Castelrotto, durante una delle nostre (privilegiate) vacanze, avevo forse dieci anni. La mamma aveva un metodo tutto particolare per scegliere i posti della villeggiatura. A primavera inoltrata, chattando dal salumiere (cervelé) o dal fornaio (prestiné) raccoglieva informazioni di base...

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Vacanze a Castelrotto

La prima volta che siamo stati a Castelrotto, durante una delle nostre (privilegiate) vacanze, avevo forse dieci anni. La mamma aveva un metodo tutto particolare per scegliere i posti della villeggiatura. All'inizio della primavera, conversando dal cervelé (salumiere) o dal prestiné (fornaio) raccoglieva informazioni di base. A casa, libera dalle faccende, stendeva la cartina d’Italia sul tavolo della sala (altro privilegio), che era quadrato, di legno scuro, intarsiato sui bordi, e sorretto da un’unica base centrale da cui si diramavano quattro teste di leoni. Quando le pieghe delle Alpi risultavano belle stirate, ci chiamava per il rito dell’Abracadabra. Chiudeva gli occhi tipo illusionista e con gesto teatrale calava l’indice in un punto preciso e troppo ben mirato per essere un colpo alla cieca.

Compiuta la scelta “casuale”, partiva in avanscoperta alla ricerca di un nido che ci ospitasse per almeno un mese. Non so come facesse, se usasse una scopa o un tappeto volante per raggiungere quei posti remoti che esistevano solo nella mappa dettagliata del Creatore. Sta di fatto che a Castelrotto ci eravamo arrivati col treno fino a Verona. Con un altro treno fino a Bolzano. Con un autobus che lasciava una nuvola di polvere mista a odore di nafta alle sue spalle. Avevo chiuso gli occhi per non inorridire alla vista degli strapiombi senza protezione e sudato l’insudabile ogni volta che l’autista, parente di Ascari, derapava sui tornanti sterrati e faceva il pelo ai rari mezzi in discesa. Ma la mamma era felice! Scesi alla fermata sotto il campanile che sembrava una piccola torre moscovita, era entrata nella bottega del fornaio (che là non era il prestiné ma una parola indecifrabile) e si era messa a parlare in una lingua ignota. Più tardi mi avevano spiegato fosse tedesco, precisando, però, che la lingua di quella comunità era il ladino, una sorta di linguaggio del posto. Io mi ero sentito subito rassicurato perché mia sorella, che frequentava le medie, il latino lo sapeva, eccome! Ma quando le avevo chiesto cosa avesse detto la mamma, aveva alzato le spalle e allora avevo capito che forse non era ancora arrivata a studiare quella parte di latino che parlavano lassù. Subito dopo l’alzata di spalle, mia sorella mi aveva sillabato un po’ scocciata che quello era la-di-no, con la "d". Allora avevo concluso che dovesse essere una forma derivata dalla lingua che studiava mia sorella a scuola e che mia mamma credeva fosse tedesco.

Però... che confusione! Eravamo in Italia, mia mamma parlava in tedesco credendo che fosse latino antico, il prestiné del luogo rispondeva in la-di-no per farsi capire dalla mamma che sapeva qualche parola di Tedesco e mia sorella, studentessa in Latino, affermava in Italiano di non capire il latino con la "d"!

Per fortuna era stato solo un momento di smarrimento perché usciti dal fornaio che parlava il latino con la "d", non c’erano stati più problemi di linguaggio per il fatto che era la natura a parlare con il suo alfabeto universale.

Lo Sciliar giganteggiava davanti a noi, i prati brillavano di un verde mozzafiato, i boschi ne smorzavano l’esagerata esibizione, ma si ergevano talmente alti verso il cielo che quasi si sentiva un gridolino celestiale dovuto a un certo solletico ascellare. L’albergo Posta Agnello era totalmente in festa e una moltitudine di latini con la "d", vestiti con costumi di Latini antichi, cantavano e ballavano nella piazza del campanile moscovita. Sembravano una giostra colorata.

Attraverso un androne che si apriva nella pancia di una casa si saliva, su su per una stradina lastricata, fino al colle. Il colle, in realtà, era la rappresentazione della Via Crucis e sul colmo, circondato da una muraglia in pietra, le quattordici cappelle ne seguivano il perimetro circolare.

Al centro era tutto prato.

La croce con il Cristo, enorme, era la più vicina all’ingresso, i ladroni stavano più indietro, attori secondari e defilati.

La prima volta l’immagine della crocifissione mi aveva provocato una strana sensazione di tristezza e costretto a una reazione assai rara per la mia età: mi era partito un embolo di riflessione.

Ma era stato soltanto una debolezza passeggera; fatta amicizia, quel colle, tanto caro agli abitanti latini con la "d", era diventato il nostro parco giochi... e le croci solo attrattiva per i villeggianti, invero ancora molto rari in quel lontano 1956.


© Cesare Ferrari

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