"Avevo otto anni quando ho conosciuto Ponte di Ferro. L’ho subito amato perché era una costruzione che sicuramente avevo imbullonato io con il meccano... forse avevo esagerato nelle dimensioni. Tornavo da Rivachiara con mia madre..."

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Ponte di Ferro

Avevo otto anni quando ho conosciuto Ponte di Ferro. L’ho subito amato perché era una costruzione che sicuramente avevo imbullonato io con il meccano… forse avevo esagerato nelle dimensioni. Tornavo da Rivachiara con mia madre. Era il tramonto e avevamo trascorso tutta la giornata dai miei nonni. Pochi metri prima del ponte, la littorina si era fermata alla Stazione Piccola, lato Sponda Magra e con un’alitata al gasolio ci aveva spinto, o forse soffiato, sul secondo binario elettrificato in curva, di fronte alla Stazione Grande, direzione Megalopoli.

È stato durante quel furtivo passaggio simile a volo che ho percepito l’imponenza e la forza del braccio di ferro, appena delineata e smorzata dal crepuscolo e dalle luci azzurre e viola dei segnalatori a fianco dei binari. Più che un ponte una fola, ma una fola in cerca d’amore può rapire un cuore adulto o bambino. Sulla banchina aleggiava uno strano odore: ozono dicevano. L’esalazione mi infastidiva, sentivo la testa pesante… mi figuravo fosse colpa di Ozono, nuovo personaggio inquietante del Mago di Oz con i piedi a rotelle. Pensavo mi inseguisse lungo i binari con l’intento di gasarmi e poi buttarmi giù dal ponte, nell’acqua cheta del fiume, in quel punto ancora appendice del lago. Ma non poteva essere… il ponte era mio, lo avevo costruito in cantina, scatola del Meccano n. 6, cacciavite, chiave inglese, strisce di ferro lunghe e forate, incrociate da analoghe liste corte, viti, bulloni… accidenti alle viti spanate, binari della Rivarossi…

Scacciato il pensiero angosciante, al ritmo del bongo del ponte, si avvicinava stridendo scintille quel mostro che mangia lattuga… ma guarda? La mia tartaruga! Aveva gli occhi un po’ spenti di chi ha prodotto uno sforzo non pari alla distanza percorsa, il guscio emaciato da mille tormenti e proprio al centro dell’enorme corazza, due baffi a stantuffo andavano in cerca di un filo che appena vedevo nel buio in arrivo. La coda, tagliata, lasciava posto ai vagoni che a stento si davano la mano per non scivolare sui livelli un po’ strani dei binari inclinati a seguire la curva.

Con fatica ho scalato i gradini di accesso a un vagone, mi son steso sul sedile di legno, la testa nel grembo di mamma, al mio fianco. Ho carpito, già quasi nel sonno, il fischio del capo stazione, sbatacchiar di sportelli, un vociare confuso… lo scossone di avvio… un pensiero abbozzato: “Quando avrò il meccano del 7 rivedrò la struttura del ponte, la farò basculante, per consentire alle navi il passaggio fluviale”. 

© Cesare Ferrari

Il ponte di Sesto Calende al tramonto

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