Il convoglio rallenta e si ferma con un insolito sussulto. Dal finestrino distinguo la scritta impressa sul cartello della stazione. Un tuffo al cuore mi riporta alla realtà: “Zerbano? Come Zerbano… io dovevo scendere a Rivachiara!”...

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Posta per Bea

Il convoglio rallenta e si ferma con un insolito sussulto. Dal finestrino distinguo la scritta impressa sul cartello della stazione.

Un tuffo al cuore mi riporta alla realtà: “Zerbano? Come Zerbano… io dovevo scendere a Rivachiara!”

Carico trafelato il mio sacco sulla spalla e mi precipito verso l’uscita del vagone, mentre il capostazione ha già impugnato il fischietto. Sebbene il mio nome sia Franco, sono confuso e disorientato. Ancora una volta mi sono lasciato rapire dalle mie fantasie, trasportato da un sentimento del tutto nuovo: primo amore, forse. Libero, il mio secondo nome, da tempo mi esorta a trovare un barlume di coraggio per comunicare il mio sentimento, al pari di un intrepido crociato dell'amore nell'anno di grazia 1978.

Percorro la piccola sala d’aspetto della stazione e proseguo a passi veloci finché raggiungo la strada provinciale e prendo la direzione del paese in cui abito.

Nel primo tratto del mio cammino la strada scorre lontano dal lago, protetto da una folta boscaglia. A ridosso dell’asfalto la ferrovia procede sulla massicciata. Tra gli alberi filtrano barlumi di luce riflessi dal bacino. Percepisco magia nell’aria e mi lascio contaminare come Libero intende, mentre toni in grassetto appaiono ovunque. Godo della natura, dei suoi colori, del vibrare del mio corpo sotto la spinta di passi che sembrano nuovi! Mi accorgo di placide acque indorate da tife e canneti che occhieggiano tra i pertugi della macchia boschiva. Inseguo un riverbero di luce bizzarro che raffigura i tratti incerti di un volto. Non fatico a riconoscere le sembianze di Beatrice: occhi chiari che so così limpidi e profondi da far trasparire la fonte della vita, sorriso accattivante che autorizza a leggervi un accenno di complicità…

Un irrefrenabile fremito di gioia mi avvolge: via… via dalle membra... so volare, sono fantasia, sono emozioni, sono pulsioni. Sono l’altro che Libero vorrebbe, "… chi può fermare il fiume che scorre verso il mare, le rondini nel cielo che vanno verso il sole, chi può fermar l’amore, l’amore mio per te..."[1] inizio a correre, canto e rido per l’incontenibile felicità.

Il mio stato euforico si protrae fino alla mattina in cui incrocio Beatrice, diretta alla stazione. Sono in auto, fresco di patente; rallento e le faccio segno se vuole un passaggio. Lei mi guarda un attimo sorpresa, poi annuisce. Attraversa la strada e sale.

Siede accanto a me, le gote accese, e io ho venti minuti scarsi per vuotare il sacco… voglio dire: per farle capire quanto è diventata importante per me. Ѐ difficile… le ho fatto credere di non essere lei l’oggetto dei miei sogni, ma una ragazza che sale alla fermata successiva del nostro comune percorso ferroviario. È un antico sistema usato dai cicisbei per entrare nell’intimo della persona amata senza destare sospetti e rischiare clamorosi, devastanti insuccessi: un gioco degli specchi che sposta il campo visivo in modo da presentare altro rispetto a ciò che sta realmente davanti.

Per non smentirmi, passo dal paese della ragazza degli specchi, ma so che la sua immagine è già salita sul treno. Mi rimangono dieci minuti, forse meno… Libero mi incalza:

«Su, avanti, diglielo! Cosa aspetti? Quando si ripresenterà un’occasione simile?»

«Sì, certo! È facile per te… sei solo un secondo nome! Sono io in gioco, insieme alla mia autostima! Se mi dovesse dire che per lei sono uno zero assoluto?»

«Meglio uno zero assoluto di un tentenna inconcludente! Altro che autostima! Certo, ti potrà dire che non sei nei suoi pensieri, ma almeno ci avrai provato!»

Beatrice parla, gesticola, sorride, mi guarda con quei suoi occhi in cui mi perdo ogni volta, ma io sono lontano, troppo concentrato nel dialogo con Libero.

Il contachilometri macina centinaia di metri, inesorabile. Si avvicina il centro abitato dove risiedono le nostre scuole. Temporeggio, mi mastico l’angolo di un labbro. Non ce la faccio! Non so come affrontare il discorso! Eppure dovrebbe essere così facile… basterebbe tenere lo sguardo fisso alla strada e dirle: «Bea, ascoltami, mi sono innamorato di te!» Oppure qualcosa di meno diretto e impegnativo: «Vuoi essere la mia ragazza?» Andrebbe bene pure un palliativo: «Beatrice, ti devo parlare, troviamoci…»

Niente! Non mi esce una sillaba! Libero mi incalza: «Guarda che mancano poche centinaia di metri… ora o mai più!»

L’ora rimane imprigionata tra le mie labbra, vittima del mai più!

Le scrivo una lettera. L’intento è di sostituire la  mia inadeguatezza verbale con una dichiarazione scritta. Non mi accorgo subito di quanto l’impostazione del manoscritto sia disastrosa.

Nel testo le chiedo un incontro e per apparire spiritoso ‒ alle donne piacciono i tipi che fanno ridere ‒ l’avverto della mia abitudine di aggiungere una tacca sul mio volante per ogni ragazza che declina l’invito.

Solo dopo aver spedito la lettera mi sorge il dubbio che possa finire in mano ai genitori della ragazza. Beatrice ha solo sedici anni. Nella migliore delle ipotesi, se avrà modo di leggerla, mi bollerà come ridicolo, idiota e immaturo! Non solo: i suoi le proibiranno qualsiasi azione nel merito, in primo luogo di vedermi, comprensibile timore di una tacca in più.

Attendo invano risposta per qualche settimana e poi, sconsolato, ritorno da lei… da Sfera. Non mi farà domande e curerà con mendace affetto la mia sofferenza: si lascerà calciare docilmente in rete, finché le cicatrici del cuore non faranno, di Bea, un ricordo indelebile.

[1] "Dio come ti amo" di Domenico Modugno

© Cesare Ferrari 

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