Nei lontani anni ’50 ricordo di aver subito un tentativo di arresto ai domiciliari da un “Ghisa” motociclista. Già... in quel periodo a Milano bisognava guardarsi anche dai vigili in motocicletta, con tanto di casco, giubbotto e guanti di pelle rigorosamente neri...

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Arresti domiciliari

  Nei lontani anni ’50 ricordo di aver subito un tentativo di arresto ai domiciliari da un “Ghisa” motociclista. Già... in quel periodo a Milano bisognava guardarsi anche dai vigili in motocicletta, con tanto di casco, giubbotto e guanti di pelle rigorosamente neri. Nonostante solo pochi membri di noi “ragazzi delle vie Ball”(La mia fantastoria)  fossero in grado di comprarsi delle pistole spruzz’acqua, di riffa o di raffa tutti quanti eravamo riusciti a procuracene una. Il motivo era più che giustificato: un sorteggio aveva deciso che la nuova “Era” (stagione di giochi) sarebbe stata quella delle armi con lo schizzo.

Insieme agli eterni rivali di via Cironi, detti i “Cironiani”, avevamo iniziato la ricerca delle armi con ogni mezzo a disposizione, come dire: centesimi di spavelderia, lire di astuzia e banconote di “faccia di tolla”. Il Buioni aveva scambiato delle ciliegie sfibrate dal non acquisto, trafugate al banco della frutta del padre e in milanese catalogate “de trà via”, per un mitra che perdeva acqua. I due fratelli Grattapiù e Grattameno si erano proposti di vendere l’ultima serie di “Tex” allo “Scambia tutto”, angolo ciclista. Ci avevano poi fatto credere che, quando un amatore dei “bestseller” si era detto disposto all’acquisto, il Grattapiù, fingendosi un altro potenziale acquirente, era riuscito a far lievitare il prezzo a livello stratosferico. Ma non ce l’avevano data a bere, perché gli attrezzi che si erano procurati erano delle ciofeche sicuramente “grattate” o recuperate in qualche pattumiera.

Non avevamo idea di come si fossero procurati le armi i nostri avversari, ma, per farla breve, gli spruzzi avevano avuto inizio. L’esuberanza dei combattenti e la poca capienza delle armi ci obbligavano a continue ricariche che erano decisamente problematiche. Gli unici approvvigionamenti idrici erano i rubinetti di casa e il rischio di avere armi e libertà personale requisiti, con l’aggiunta di qualche scoppola, al tempo definita educativa, ci aveva fatto preferire la soluzione strategica di spostarci verso qualche fontanella del fascio. La più vicina era quella di Piazzale Susa che avevamo raggiunto divisi in due gruppi separti, concitati e pronti a qualsiasi, tanto più fantasioso quanto meno proponibile, piano di battaglia. I prati della piazza, complice la fontanella, avevano fatto decollare la tenzone al punto che, bagnati fradici, occhi agli avversari e ebbri di adrenalina, non ci eravamo accorti del pericolo che… proprio alle mie spalle… incombeva. Il ghisa non aveva fatto in tempo ad aprire bocca che tutti, ma proprio tutti, se l’erano data a gambe, senza neppure strizzarmi un occhio per avvisarmi del pericolo. Quando finalmente mi ero reso conto della minaccia era troppo tardi per fuggire e il vigile aveva già estratto il suo libriccino delle multe. La paura mi aveva fatto crescere radici alle suole, tanto da rendermi impossibile sradicarle dal terreno.

«Sai leggere? Lo vedi quel cartello? C’è scritto “Vietato calpestare le aiuole” e voi cosa stavate facendo? Dove abiti?»

«Q… qui vicino!» avevo risposto paralizzato dalla mitragliata di domande e dal timore reverenziale che mi incutevano divisa e chi la indossava.

«Allora di corsa verso casa tua… io ti seguo in moto!».

Avrei potuto beffare il carceriere e sparire come un fulmine all’incrocio del primo vicolo, ma la frustrazione per essermi lasciato gabbare così ingenuamente e il pensiero di essere inseguito come un delinquentello per le strade del mio quartiere, mi impedivano di scegliere tale soluzione. Avevo continuato a trotterellare sui marciapiedi, seguito dallo scoppiettante “Guzzino” del mio custode. Giunti davanti al cancello di casa mia, il ghisa aveva tirato giù il cavalletto, si era tolto il casco, i guanti con calma e aveva suonato il campanello. Mia madre si era affacciata alla finestra, mi aveva  visto accompagnato dal vigile e subito era sbiancata in volto. Senza dire una parola si era precipitata in strada, mentre tutto il vicinato aveva già iniziato la discussione del caso (limitati i mezzi, ma uguali la smania di protagonismo e la voglia morbosa di non farsi i fatti propri)… ed era stato a quel punto che io, uno dei mitici “Ragazzi delle vie Ball”, duro come le nostre spietate sfide di piazza, dimenticate le mie eroiche origini, mi ero sciolto in un pianto irrefrenabile, non so se più liberatorio o rabbioso per l’umiliazione subita. Contravvenzione saldata e paga ricevuta… la mamma, nonostante fossi il terzo figlio, aveva le mani ancora belle giovani. Arresti domiciliari, dicevo… no, impossibili, noi eravamo una generazione senza domicilio, eravamo reperibili solo in strada.


© Cesare Ferrari

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