“... Le nostre fedi mandano bagliori radiosi mentre carichiamo i bagagli sull’auto. Siamo appena tornati dal pranzo di nozze e Sabina si è subito tolta l’abito da sposa. È accaldata, non sopporta l’afa e il temporale è vicino, gocce di sudore le imperlano le tempie… sono loro a creare la rifrazione, basta un accenno di sorriso e compare l’iride sul suo volto..."


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La Caribia II

 

“Le nostre fedi mandavano bagliori radiosi mentre caricavamo i bagagli sull’auto. Eravamo appena tornati dal pranzo di nozze e Sabrina si era subito tolta l’abito da sposa. Era accaldata, non sopportava l’afa che precede l’arrivo di un evento temporalesco. La traspirazione le inumidiva le tempie creando la condizione propizia per un minimo di rifrazione, era bastato un accenno di sorriso per farle comparire l’iride sul volto.

   Suppongo che la foggia andalusa del vestito indossato per la cerimonia nuziale avesse una motivazione: avevamo prenotato una crociera, prima tappa Barcellona. Saremmo stati a zonzo per il Mediterraneo per quindici giorni con una motonave. La partenza era prevista da Genova, ma avevamo deciso di trascorrere due notti e un giorno in una nota località ligure, per evitare il caos cittadino ed essere vicini al luogo dell’imbarco. Avevo prenotato una camera in un hotel di prima categoria.

   ‘Sei felice, amore? È andato tutto bene, credo…’

   ‘Sì Frì, ma non vedevo l’ora di scappare via con te. Ne ho abbastanza dei parenti, degli amici, dei brindisi e dei baci elargiti a tutti…’

   Sabrina era a bordo dell’auto, mi ero sporto verso di lei e l’avevo baciata con tenerezza; avevo chiuso la mia portiera proprio nell’istante in cui il temporale, aggiratosi tutto il giorno sopra le nostre teste, si era scatenato. Vapori umidi profumavano l’aria! Percepivo l’aroma del fiore appena radicato nella mia terra fine, che avevo promesso di nutrire.

   Raggiunto l’hotel, ci eravamo infilati sotto la doccia della nostra suite prenotata e rivestiti per la cena.

   La sala da pranzo era elegante ma di stile antico, come tutte le strutture dell’albergo e ostentava una quantità di specchi, velluti e lampadari da cui pendevano decine di gocciole di cristallo. Ci eravamo avvicinati al nostro tavolo seguiti da sguardi indagatori, molto interessati. La maggior parte dei clienti superava la sessantina, vestiva in un elegante stile rétro e metteva in mostra sfavillanti gioielli d’epoca remota. D’altra parte che altro avremmo dovuto aspettarci da un albergo dalle caratteristiche così ataviche? Fidandosi del loro fiuto infallibile, gli anziani avventori erano in grado di captare il profumo emanato da una coppia di giornata come la nostra, e si scambiavano occhiate compiacenti. Gli sguardi si erano impreziositi di sorrisetti nel momento in cui, seduti, le mani sulla tavola, le nostre fedi svelavano in tutta la loro lucentezza le poche ore trascorse dallo scambio.

   Le portate previste dal menù erano povere, probabilmente pensate per l’età anagrafica della maggioranza dei clienti; terminata la cena, Sabrina aveva ancora fame. Avevamo deciso di uscire per fare un giro notturno e gustarci un po’ di focaccia ligure.

Un vento gelido che proveniva dalla costa ci aveva fatto desistere dal proposito. Benedetto era stato… subito in camera, pacchetto di cracker, nuova doccia, denti, lei camicia bianca tipo babydoll, io pigiama nocciola con risvolti lucidi di raso; subito sotto le lenzuola… Sabrina mi aveva invitato a conoscere com’era fatta, finalmente tutta, io l’avevo incoraggiata a capire com’ero… al completo, e poi e poi… tra le braccia solo felicità!

   Il giorno successivo era trascorso nella magia dell’attesa, che del viaggio rappresenta la vera essenza.

   Sabato ci eravamo imbarcati, anche la nave aveva uno stile elegante, ma datato. Si chiamava ‘Caribia II’. Sulla banchina del porto, davanti all’ufficio della compagnia di navigazione era stato apposto un foglio in cui, oltre alla fotografia della nave, si poteva leggerne la storia. Anche lei era elegante, ma risultava datata, rimodernata da diverse ristrutturazioni.

   La nostra cabina aveva il numero duecentotrenta, era sul ponte principale che comprendeva diversi locali ricreativi, tra i quali la sala feste e il bar ‘Barcellona’.           

   Eravamo partiti da Genova prora su… Barcellona, e non avrebbe potuto essere altrimenti.

   I motori lamentavano la sofferenza delle migliaia di leghe dedicate a uno scafo che non riusciva a camuffare i danni procurati dalla salsedine. A Carì era stata assegnata la crociera preferita dalle coppie in viaggio di nozze, e lei, traballante custode delle fedi, tra un rollio, un beccheggio e il fruscio di uno spruzzo argenteo, raccontava ai giovani sposi le sue storie, le sue esperienze, l’intimo stupore della sua prima volta nel sentirsi accarezzata dalle onde e l’impegno d’amore giurato al suo amante che aveva labbra salate e infinite concubine.

Nello stillicidio di comete che tracciavano improvvisate scie nella notte limpida, giovani innamorati affacciati sulle balaustre dei ponti e accomunati nei sogni si riparavano dall’umida marina avvolgendosi nella trapunta stellata. La notte era colma dei sussurri scambiati nel corso delle loro prime esperienze, fatte di trepidi amplessi mentre ascoltavano rapiti le favole del mare.

   Il golfo catalano ci aveva accolti nel suo seno capace e Barcellona aveva svelato le guglie disarmoniche della Sagrada Familia.    

   Durante la sosta, avevamo visitato la città e verso sera eravamo proseguiti alla volta di Palma di Maiorca. Tra le varie escursioni proposte dal programma, avevamo scelto la serata alla Fazenda Barbacoa, una vecchia fattoria andalusa riadattata per accogliere i turisti. Il programma prevedeva gorgheggi andalusi, arpeggi di chitarre soliste e caviglie irrequiete al ritmo del flamenco.

   Sabrina era radiosa e dopo qualche bicchiere di sangria sarei stato disposto a percorrere in equilibrio tutte le sfumature del suo sorriso, fermandomi a raccogliere, tra un passo traballante e l’altro, ogni raggio di felicità che traspariva dal suo viso.      

  Tappa successiva Tunisi, dove ci aspettava un soggiorno di una settimana in un bungalow di un hotel affacciato su una delle più pittoresche spiagge di Hammamet. Sette giorni di paradiso nell’attesa che Carì completasse il suo periplo e ci riprendesse a bordo. Mentre ci stavamo preparando allo sbarco nel porto tunisino, avevamo scambiato qualche parola con una coppia dall’aspetto curioso. La ragazza era lombarda, aveva pelle chiara punteggiata da efelidi e capelli ramati, raccolti e nascosti da un basco rosso di panno leggero, particolare che aveva attirato subito l’attenzione di Sabrina. Il suo giovane compagno, con accento del sud, aveva carnagione olivastra, un’impercettibile traccia di barba attorno all’ovale del viso e un cappello Borsalino chiaro di paglia, circondato da una fettuccia scura sopra la tesa. Nonostante l’atteggiamento da ‘Bonnie and Clyde’, i due ci erano sembrati subito simpatici, e nel momento in cui avevamo scoperto che si erano sposati nel nostro stesso giorno era stato subito feeling.

   La settimana tunisina era trascorsa tra bocche incendiate dal cuscus, bagni di sole e di mare, escursioni nei dintorni, gobbe ondeggianti di cammelli e sguardi abbacinati dal chiarore accecante dell’infinita distesa bianca del litorale deserto, tormentato a tratti da raffiche di vento tiepido.

   Il bungalow che ci avevano assegnato confinava con un altro gemello. I due edifici presentavano balconate contigue che si affacciavano sulla spiaggia. Le piccole terrazze erano delimitate da un ventaglio di colonnine azzurre che reggevano una balaustra candida. Era sera e faceva ancora molto caldo, ma non volevo privarmi del mio pigiama da sposo, così mi ero affacciato sul piccolo spazio all’aperto per rinfrescarmi un po’, sperando nell’umidità che arrivava dal mare. Sul terrazzino accanto avevo avvertito una presenza; girato lo sguardo, avevo notato un uomo che indossava il mio stesso pigiama, di colore azzurro. Lo stupore si era trasformato in una risata incontenibile allorché, con un’occhiata più attenta, mi ero accorto che il mio “gemello di pigiama” era… Clyde!

   L’ultima sera, di ritorno da un’escursione a Cartagine, avevamo deciso di goderci il tramonto sulla spiaggia. Sabrina sfoggiava un bikini dai motivi variopinti, le cui sfumature di rosso acceso toglievano la scena agli altri colori e a me il respiro. Un rettangolo di tessuto trasparente, con le stesse tonalità del costume, le fasciava i fianchi, lasciando spazio al gioco seducente di un lembo di cute candida che si affacciava a ogni ritmico ondeggiare del bacino. Avevamo camminato sulla battigia tenendoci per mano, mentre il sole si scioglieva nell’acqua scura portandosi via lentamente il candore del villaggio. Il mare spumeggiava, il giorno precedente aveva fatto burrasca e il vento non si era ancora arreso, provocando mulinelli di aria tiepida che si innalzavano dalla spuma sfrigolante della risacca. Sabrina aveva sollevato un lembo del pareo e si era lasciata rapire da quei vortici tiepidi: era leggera, felice, danzava la vita, d’impeto si era tuffata tra le mie braccia. L’avevo accolta, sollevata, e poi aiutata a volteggiare seguendo il turbinare del vento, e più il vigore dell’abbraccio assumeva moto circolare spingendo il suo corpo verso l’esterno, più la sua anima s’imprimeva nella mia. Era un girotondo esuberante, spontaneo, e io, formica trepida in cerca di tangibile evidenza, ero rimasto incantato dal frinire sensuale della mia cicala.

   Trascorsa la notte, eravamo di nuovo a bordo di Carì e la successiva, ultima tappa, prima del rientro a Genova, avrebbe dovuto essere Capri.

   Durante il tragitto la motonave aveva rallentato, un motore era in evidente avaria, il mare si era increspato e lei rantolava tra i flutti. In prossimità dell’isola aveva cercato di girarsi, di mettersi controvento e consentire alle imbarcazioni che le galleggiavano attorno di accostare per caricare i passeggeri che avevano scelto lo sbarco all’isola. La manovra era fallita una prima volta e poi una seconda. Al terzo tentativo non riuscito, il comandante aveva desistito e diretto la prua verso il continente.

   La navigazione era sempre più lenta, l’affanno grave. Carì faticava a liberarsi dall’abbraccio del suo amante, sempre più esigente; le forze le mancavano e allora il suo capitano, che non l’aveva mai tradita, aveva compiuto un ultimo atto d’amore per lei.

   Eravamo tutti sul ponte, visibilmente in ansia.

   All’improvviso un gruppo di cuochi aveva iniziato a sventolare in aria le bandane: ‘Napule guagliò, jamme a Napule!’ un grido di giubilo che saliva alto verso il cielo.

   E là, nella città dell’inventiva, Carì aveva concluso la sua corsa e macchiato la sua favola, allo stesso modo dei grandi campioni che non hanno capito sia giunto il tempo di ritirarsi dall’agone.   Non avrebbe più navigato.

   Alcuni mesi successivi al nostro complicato rientro a Genova, avevo letto su un giornale che la motonave degli sposi era stata ricoverata in un cantiere e presto sarebbe stata demolita. L’avevo idealizzata inferma, legata alla banchina, allucinata e nel deliro dell’agonia, mentre trascorreva i suoi ultimi giorni ripetendo i nomi delle coppie a cui aveva regalato i suoi racconti di mare e d’amore, e sarebbe stato un grande onore per noi se fossimo stati gli ultimi a essere menzionati.”  


Da Io dipingo e tu scrivi

© Cesare Ferrari

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