“Mia madre sta percorrendo il marciapiede con il suo passo flemmatico, la borsa inseparabile le ciondola nella mano destra, la testa leggermente china. Immagino che si stia recando nel vicino negozio di alimentari o forse in chiesa che, a Rivachiara, sporge da un angolo della piazza..."

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Freno a mano necessario, non optional

Non ero presente a quanto accaduto a mia madre, ma non era stato difficile ricostruire la scena nel mio immaginario. 

   Me l’ero figurata mentre stava percorrendo il marciapiede con il suo passo flemmatico, la borsa inseparabile ciondolante nella sua mano destra, la testa leggermente china. Immaginavo che si stesse recando nel vicino negozio di alimentari o forse in chiesa, all’angolo della piazza.

   Poco oltre, sull’altro lato della strada era fermo un furgone, non c’era nessuno a bordo, ma aspettava lei. La strada, in quel punto, era leggermente in discesa e il mezzo, nell’istante in cui si era mosso, aveva le ruote curvate verso il marciapiede percorso da mia madre. La mamma non si era accorta, o forse aveva avvertito il pericolo troppo tardi; il tempo di alzare lo sguardo e il furgone l’aveva sospinta contro la colonna in cemento di un cancello. Nell’impatto, le lamiere del veicolo non l’avevano travolta… erano strusciate sul suo corpo, lacerandole i tessuti dell’addome.     Alla mamma era uscito un lamento soffocato e si era accasciata nello spazio che concedeva la rientranza del cancello. Era rimasta cosciente e subito aveva ricevuto soccorso dai presenti. Un’ambulanza l’aveva trasporta al vicino ospedale.

   Ero al lavoro nel mio studio quando Sabrina mi aveva avvertito di quanto era accaduto. Uscito velocemente, e salito in auto, avevo percorso l’autostrada vagliando una ridda di ipotesi che mi avevano tormentato per tutto il percorso. Mia moglie era riuscita a fornirmi solo notizie vaghe.

   Arrivato all’ospedale, la mamma era già stata operata. L’avevano ricoverata in osservazione e poco dopo era iniziato a delinearsi un crescente stato confusionale. L’indagine ecografica aveva evidenziato un’emorragia interna che aveva reso necessario un intervento chirurgico urgente.

   Ero arrivato nel momento in cui il chirurgo stava informando mio padre e mia sorella sull’esito dell’intervento. Aveva confermato di aver riscontrato una lacerazione addominale a strappo, molto difficile da tamponare. Secondo il suo parere la sutura era avvenuta in modo soddisfacente. Era già notte inoltrata quando aveva abbandonato l’ospedale, convinto di avere compiuto il suo dovere.

   Nel frattempo tardavano a far uscire la mamma dalla sala operatoria. Vedevo passare sacche di sangue e avevo iniziato a preoccuparmi. Dopo minuti interminabili di ansia era apparso l’anestesista, era inquieto: nonostante i suoi ripetuti stimoli la mamma non si risvegliava. Poco più tardi ci aveva comunicato che l’avrebbero trasportata d’urgenza in un ospedale della provincia attrezzato per il monitoraggio.     

   Con i miei familiari a bordo, mi ero accodato all’ambulanza che correva veloce in autostrada, luci azzurre lampeggianti e sirena spenta. Nessuno di noi parlava. Non riuscivo a provare alcun sentimento che prevalesse sullo sgomento sconfinato che mi pervadeva. La notte era buia, la percepivo infida, mentre le tracce bianche della mezzeria sfrecciavano sotto i fari, ingoiate dalle ruote con un ritmo cupo. Mi ero concentrato sulla guida, cercando di tenere una distanza adeguata rispetto al mezzo di soccorso.  

   L’autolettiga si era fermata davanti all’entrata delle urgenze, i volontari avevano deposto veloci la barella, ne avevo seguito il tragitto scrutando il volto di mia madre. Le avevo stretto la mano, ma non avevo ricevuto nessun cenno di risposta, aveva un colorito ceruleo, gli occhi erano aperti, fissi nel vuoto, colmi di lacrime e siero giallo prodotto dall’anestesia. Il lettino era sparito in una sala a piano terra e noi ci eravamo seduti su una panca, concentrati in un’attesa che non aveva argomenti.

   All’alba, come un fantasma, era apparso un medico e ci aveva sussurrato il peggio: la mamma era spirata.

   Mio padre era disperato.

   «Me l’hanno uccisa…» Non si capiva, però, a chi attribuisse la colpa: al chirurgo dileguatosi troppo presto dopo l’operazione? All’anestesista che aveva sbagliato il dosaggio del farmaco? Al ragazzo, sbadato autista del furgone omicida che rivedevo sul pianerottolo delle scale di casa nostra, ammutolito e rannicchiato come un pulcino nelle braccia della sua ragazza? Certo un errore fatale, ma ero convinto che non ci saremmo costituiti parte civile. Non aver inserito la marcia e nemmeno attivato il freno a mano sul veicolo in sosta, prima di scendere dal mezzo, erano state gravissime omissioni che avevano spezzato una vita e causato un dolore immenso a noi, ma non era stato un atto di pirateria. Sarebbe stato insensato distruggere anche la sua esistenza già condannata alla pena del rimorso.

   Io ero muto, raccolto a feto sul sedile, la testa tra le mani, non riuscivo a rendermi conto che erano bastate poche ore per rapirmi colei che, così rannicchiato, mi aveva custodito nove mesi nel suo grembo.

   Libero era seduto accanto a me, il suo sguardo più tenero rivolto verso il mio volto. Non osava proferire parola, sapeva che mi avrebbe solo infastidito, piuttosto che consolato.

   Mia sorella singhiozzava il suo sconforto.

   Mio padre stava cercando di scuotermi dalla mia abulia.

   «Su, sfogati anche tu, non tenere tutto dentro!»

   Era inutile, non riuscivo a piangere, ero in gara con la mamma sui gradini della scala, su su, verso il solaio. Mi aveva raggiunto, ero rassegnato, sapevo che mi avrebbe chiuso a chiave nello stanzino buio… Invece, con un sorriso radioso aveva steso una mappa nuova di zecca sul pianerottolo e aveva puntato l’indice su una zona luminosa, esclamando: «Quest’anno in vacanza andrò qui…»

   Avevo messo a fuoco lo sguardo nella direzione indicata da mia madre e in un pezzo di cielo azzurro, appena scalfito da una piega del foglio, era apparsa la scritta: Villaggio La Quiete, località Paradiso. 


Da Io dipingo e tu scrivi


© Cesare Ferrari

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