Prologo faceva di mestiere il parolaio. In verità il suo primo lavoro era stato il portatore di fatti, ma i contenuti erano difficili da costruire... pesanti da trasportare... Al contrario le parole erano leggere, veloci, facili da smontare e rimontare in poco tempo. Era diventato abilissimo. Vendeva discorsi di circostanza, slogan di propaganda, barzellette per stare in compagnia, frasi di cordoglio, bugie veritiere, confetti farciti di dolce nonsenso per cerimonie sontuose. Ben presto la sua fama si era sparsa ovunque nel mondo. Tutti lo cercavano, lo imitavano, ripetevano le sue frasi famose, lo volevano ospitare nei salotti mondani, nei corridoi politici, nelle trasmissioni senza contraddittorio... Impazzava sui social con milioni di like, cuoricini, bacini, consensi, sostenitori. All’apice del successo, camminava per strada circondato dalla guardia del corpo, quando dalla folla opprimente uscì un bimbo minuto. Gli chiese con aria innocente:
«Vuoi giocare con me a calcetto?»
Prologo lo guardò inorridito. Giocare era un verbo del fare... calcetto: uguale sudare, altro verbo che esprimeva fatica. Rispose con sdegno:
«Stai lontano da me, esagitato fanciullo! Da anni non sentivo parole volgari a tal punto... impara a parlare solo del vano e ora pulisci la bocca per levare ogni traccia dal sapore di gioco!»
Pianse il bimbo tornando alla mamma. Muta la folla rimase impietrita, ripiegò piano piano, lasciò spazi all’intorno, si disperse nel nulla. Prologo si accorse di essere solo, in mezzo alla vastità di un deserto. A nulla valsero accorati richiami, discorsi d’arringa, minacce frapposte a frasi suasive... comprese che il successo ottenuto a parole si sgonfia in sola presenza di un verbo d'azione. Sparì. Nessuno ne seppe più nulla. Un nostalgico fan del passato giurò di averlo visto in un vecchio capanno. Caricava fatti, grondando sudore, su un furgone vetusto e fatterelli su un’arrugginita carriola.
© Cesare Ferrari