“I palazzi di vetro fuggono via, li osservo ancora per un attimo dallo specchietto esterno. Rimango accecato da un raggio di sole al tramonto, riflesso da un cristallo del blocco centrale. Mi ha strizzato l’occhio..."

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C'era una volta l'Operatore meccanografico

“I palazzi di vetro fuggono via, li osservo ancora per un attimo dallo specchietto esterno. Rimango accecato da un raggio di sole al tramonto, riflesso da un cristallo del blocco centrale. Mi ha strizzato l’occhio! Un chiaro segnale per rammentarmi le notti che ho trascorso nel 1970 nella sala del computer, grande come due campi da tennis.

In quel locale stipato da armadi colmi di diodi, relè cavi elettrici, serpentine per il raffreddamento, ho l’occhio fisso sulla mia console.

La carta scorre bersagliata dai caratteri di una pallina impazzita che rotea tronfia di nuova tecnologia: scarica righe di comandi, richieste da eseguire per soddisfare la bulimia informatica di un cervello che notifica troppo rapidamente rispetto alle risposte che gli arrivano dall’esterno.

Mi affanno ad appagare con il massimo zelo ogni richiesta dell’elaboratore. Ordino dalla mia postazione di comando — non sono mai stato abituato a farlo — ai colleghi addetti alla gestione delle unità di supporto, di ‘montare’ le bobine magnetiche richieste dal cervellone sulle unità nastro per l’elaborazione in corso.

Intervengo per ovviare alle segnalazioni di errore.

Carico decine di cassetti colmi di schede perforate nelle rispettive unità di lettura, che le ingoiano con lo stesso rumore dei cartoncini che mettevo da ragazzino tra i raggi della bicicletta.

Eseguo con precisione i lavori programmati per la notte, spunto quelli terminati, commento ogni anomalia riscontrata e le decisioni prese nel merito sul diario di bordo.

Albeggia quando ‘stacco’ dal turno, ho lasciato le consegne al collega entrante, sono stanco e vorrei stare con il mio amore, vicino sì, ma infrequentabile…”


© Cesare Ferrari

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