"Molti, molti e poi aggiungerei ancora una manciata di molti anni or sono, folletti, spiritelli e gnomi abitavano..." 

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La leggenda del Focobon

  Molti, molti e poi aggiungerei ancora una manciata di molti anni or sono, folletti, spiritelli e gnomi abitavano le valli delle Dolomiti. Giusto in quel pugno di anni, sotto lo sguardo attento di tre torri gendarmi dei luoghi, si estendeva una valle a forma di conca che i nativi chiamavano Foc Bon. I prati che l’ammantavano producevano un foraggio talmente nutriente che bastava un solo giorno di pascolo per consentire a qualsiasi specie di animale erbivoro un intero mese di digiuno. Le mucche, al ritorno dall’alpeggio, avevano le mammelle talmente piene di latte che quasi toccavano il sentiero. I coloni dovevano fare attenzione a non farle pascolare troppo a lungo durante quell’unico giorno, se non volevano alzarsi fino a tre o quattro volte ogni notte per la mungitura. Era del tutto normale osservare in quelle distese di prati marmotte rotolare con la pancia piena e non avere più la forza di fischiare alle compagne per chiedere l’aiuto necessario a risalire verso le loro tane; o volpi prendere in giro le galline per aver attraversato i prati dell’ironia, oppure caprioli che dopo aver brucato tre ciuffi d’erba saltavano distanze di trecento metri tra un dirupo e l’altro. Era una vera conca dell’abbondanza e del benessere.

   Ma… c’è sempre un cambiamento dopo un “ma” che a differenza di un “tuttavia” fa prendere un nuovo corso alle vicende. Ma un giorno, un folletto malvagio di nome Focmal, uscito da una scintilla di un sabba organizzato da fattucchiere apprendiste, appiccò un incendio nel bosco che circondava la conca dell’erba miracolosa. Tutti gli animali spaventatissimi si rifugiarono nella prateria del Foc Bon e vi rimasero per anni, perché l’incendio aveva bruciato la foresta e le loro case.

Per tutto quello sfortunato periodo i prati furono calpestati dagli zoccoli degli animali e la poca erba risparmiata da tale devastazione servì per nutrire tutte le specie erbivore profughe. Nel frattempo le tre cime guardiane, grigie nelle loro uniformi da gendarmi, avevano arrestato il folletto malvagio proprio al tramonto e lo avevano rinchiuso in un crepaccio al culmine della guglia centrale.

Con il passare degli anni il bosco tornò al suo antico splendore e gli animali abbandonarono la conca del Foc Bon. L’erba ricrebbe rigogliosa, ma… e ci risiamo, ma, ahimè aveva perso il suo eccezionale potere nutritivo. Tuttavia… per riparare al ma, dopo l’arresto del malvagio folletto, ogni sera al tramontare del sole gli abitanti della valle avevano iniziato a scorgere le pareti dei tre gendarmi cambiarsi d’abito e indossare vestiti d’oro con frange luminose che partivano dai pinnacoli più alti per gettarsi lungo le coste frastagliate. Sembrava che a ogni tramonto si preparassero per una importante cerimonia militare.

   Ancora oggi tale spettacolo meraviglioso si ripete, e nessuno sa per quale motivo. Nei secoli seguiti a quella manciata d’anni, la memoria dell’accaduto era stata tramandata alle nuove generazioni finché i nonni avevano saputo raccontarla ai loro nipoti, poi l’ultimo anziano del luogo, rimasto solo e senza progenie, nondimeno ancora consapevole di come fossero andate le cose, così se la raccontò:

«Nel crepaccio in cui lo avevano gettato i gendarmi, Focmal impiegava tutto il giorno per risalire la china. Arrivava verso il tramonto ad un passo dalla libertà e per la felicità lanciava uno sprazzo di luce talmente potente sulle uniformi dei tre gendarmi da farle cangiare in divise da parata. Ma la sua gioia durava lo spazio del tramonto perché subito il guardiano centrale lo ricacciava sul fondo della sua prigione, allungandogli una sonora pedata.

Nel frattempo un nonno aveva raccontato per la prima volta al suo nipotino la leggenda del Focmal, il nipote non aveva voluto credere che il folletto fosse malvagio. Vedendo le tre cime diventare così luminose al tramonto, e pensando all’antico vigore dei prati del Foc Bon, una sera, mentre le tre cime si incendiavano, esclamò a gran voce:

“Ma quella non è la fiammata di Focmal, è l’energia dei vecchi prati del Foc Bon a illuminare i tre gendarmi. Loro sono una pattuglia, sono la ronda Focobon”.

C’era un suo amico presente con lui che subito corse a casa e lo raccontò alla sorella che lo raccontò a un’amica che lo raccontò a suo fratello che…»

Tuttavia e non ma, ancora oggi, ogni tanto nella Valle del Biois si ode un brontolio di sassi in caduta libera provenire dalla Cima del Focobon, la centrale delle tre. Peccato che nessuno più ricordi Focmal e il suo tentativo di arrampicata verso la libertà.

© Cesare Ferrari

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