"Scendendo dal predellino, una ventata calda mista a ozono si insinuò su per le mie narici, tanto da farmi apparire sul volto una smorfia di disgusto. Ma fu questione di poco. Il treno filò via rapido, senza darmi neppure il tempo di attraversare il binario che mi separava dal marciapiede della minuscola stazione..."

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La ballerina e il pittore

"Una domenica mattina, di ritorno dalla città, mentre scendevo dal predellino della littorina alla fermata di Rivachiara, la solita ventata calda, mista a gasolio, si era insinuata su per le mie narici, tanto da farmi apparire sul volto una smorfia di disgusto. Era stata questione di pochi istanti: il convoglio era filato via rapido, senza darmi neppure il tempo di attraversare il binario che mi separava dal marciapiede della minuscola stazione.

Guardandomi intorno, avevo notato di non essere l’unico passeggero sceso a Rivachiara. Una figura femminile mi aveva preceduto ed era già in procinto di salire sulla pensilina antistante l’edificio della stazione, che mostrava un discreto dislivello rispetto ai binari.

Aveva una corporatura alta e snella, dall’aspetto agile. L’avevo vista oscillare nell’attimo in cui aveva impresso a sé stessa e alla sua borsa da viaggio la spinta necessaria per superare il dislivello che la separava dalla pensilina. Avevo continuato a seguirla con lo sguardo finché era entrata nella sala d’aspetto. La grazia e la facilità di quel gesto avevano catturato la mia attenzione e mi avevano fatto balenare l’idea di uscire dalla stazione passando dalla sala d’attesa.

L’avevo trovata rannicchiata su un fianco, allungata sopra una delle due panche di pelle sdrucita disposte nel piccolo locale deserto. Aveva una guancia appoggiata sul tessuto rigonfio del suo bagaglio e le braccia penzoloni di lato. Mi ero avvicinato titubante, senza fare rumore, perché dalla postura pareva addormentata. A due passi da lei una voce stanca, ma ferma, aveva borbottato: «Se vuoi rapinarmi, guarda che sei cascato male! Non ho un centesimo. In quanto al bagaglio, solo pochi indumenti che nessuno vorrebbe comprare».

«No, no… si sbaglia. Mi ha solo incuriosito l’agilità con cui ha attraversato i binari, con quella sua borsa che mi sembra piuttosto grande, direi! Per caso è un’atleta?»

«E a te cosa importa?» aveva risposto la giovane alzandosi a sedere e spalancando due occhi verdi come il mare croato.

«È vero, mi scusi la sfacciataggine, la mia è una deformazione professionale. Non è mia intenzione adescarla e nemmeno derubarla. Mi chiamo Franco. Sono un pittore e mi interessa tutto ciò che si muove con grazia e disegna nell’aria figure da riempire di colori.»

«Non sono un’atleta, ma ci sei andato vicino. Sono una ballerina, anche se sarebbe più corretto dire: sono stata

La ragazza, rinfrancata dal mio approccio amichevole, sembrava disponibile a proseguire il dialogo. Lo avevo capito dal tono della voce meno ruvido e con un accenno di curiosità.

«Un pittore? Ma guarda che combinazione! Allora anche tu devi essere un morto di fame come la persona che sto aspettando. Non so se verrà… ma io l’aspetto, l’aspetterò finché…»

Si era interrotta bruscamente coprendosi il volto con le mani. I dorsi, magri e di carnagione chiara. si erano inumiditi, quasi a rammentarmi come le mani consentissero di riparare dagli sguardi, ma non fossero in grado di evitare alle lacrime di trovare uno sfogo al dolore, una via di fuga tra le dita. Mi ero sentito toccato dalla sua disperazione, e d’istinto l’avevo raffigurata, quasi palpata come bozza in un dipinto a venire. A conferma che i miei quadri sono sempre stati il tentativo di trasporre i miei sentimenti, avevo provato un’indescrivibile commozione.

Mi ero accostato alla giovane e mi ero seduto sulla panca vicina, sul lato più prossimo a lei. Avevo atteso le sue reazioni senza proferire parola. Nel momento in cui la ragazza aveva smesso di singhiozzare e si era voltata verso di me, mi ero reso conto che il mio gesto era servito allo scopo. Le sue guance erano ancora umide, ma il viso appariva rasserenato.

“Dio, come sei bella!” avevo pensato nel momento in cui i nostri sguardi si erano incontrati.

«Ho conosciuto Tiziano proprio davanti a questa piccola stazione. Aveva esposto le sue tele sul piazzale, accanto alla balera. Sperava che la domenica, nel flusso di persone frequentatrici del locale, ci fosse qualcuno interessato ai suoi quadri. Dipingeva paesaggi. Era innamorato della natura, ma le sue tasche erano vuote, come le sue tele prima di iniziare un nuovo dipinto.

Io facevo parte di un gruppo di ballerini. Mi esibivo nelle sale dei paesi che costeggiano il lago. In molti dicevano che avevo talento e una grande carriera davanti a me.»

La giovane si era alzata e aveva eseguito una giravolta rapida e leggera, come per farmi capire le sue doti artistiche. Poi si era seduta nuovamente e aveva ripreso il suo racconto cambiando tono e modo di esprimersi, che ora pareva intriso di pennellate sparse dal suo pittore e del tutto in sintonia con la grazia del suo precedente gesto.

«Tiziano mi aveva vista uscire per la prima volta dalla stazione, insieme al mio gruppo, nel mio completo celeste in finta pelle e stivali, pronta per una coreografia tipo far west. Si era avvicinato e mi aveva sussurrato: “Sei più azzurra e chiara delle acque del mio lago… quando avrai terminato lo spettacolo mi piacerebbe dipingere le tue sponde…”»

Nuovo fluire di lacrime e disperazione, ma questa volta più controllato.

«Che stupida! Dopo quella frase, ero già persa nei suoi paesaggi, mi illudevo di essere già parte del suo mondo!

Iniziammo a frequentarci. Ogni domenica, libera da impegni con il gruppo artistico, mi incontravo con lui nella piazza. Tiziano mi abbracciava, mi baciava, mi rivolgeva apprezzamenti sempre nuovi e poi mi guidava a costeggiare un ruscello limpido, su cui volteggiavano farfalle e libellule che riflettevano ali impalpabili sulla superficie trasparente dell’acqua. Abbracciati, proseguivamo lasciando le nostre scie in un campo di grano e seguivamo un sentiero che attraversava un bosco fitto fitto. L’odore del lago si avvertiva prima che apparisse ai nostri occhi. Sapevo che Tiziano, sulla sponda erbosa di cui conosceva ogni centimetro, aveva già preparato l’occorrente per dipingere. Passavo ore in posa tra lo sguardo del mio pittore e lo sfondo del lago. Lo facevo volentieri perché mi sembrava di essere il fulcro dei suoi occhi, la sorgente della sua creatività. In quei momenti mi sentivo totalmente sua. Ero convinta che la mia passione fosse ricambiata, che Tiziano mi avesse resa parte del suo sogno, indispensabile non solo per la buona riuscita delle sue opere, ma per la felicità della sua vita.»

Io l’ascoltavo, non intervenivo perché ogni parola di quel racconto andava a delineare un particolare del dipinto, una nuova tessera del mosaico che stava prendendo forma nella mia mente.

«Finché un giorno capii che, quando facevamo all’amore, Tiziano non era con me, vagava tra le opere per le quali gli avevo fatto da modella. Ero io, raffigurata nuda tra le rocce a mezza costa; ero io, sorridente, con i capelli raccolti e un profilo sognante sull’orizzonte del lago, dove una barca a vela annaspava in cerca di vento, ero io, avvolta in trasparenze di veli mentre bevevo chinata su una polla sorgiva; ero io, ero io, ero io… In realtà io ero soltanto una modella in posa, un dettaglio della sua opera!»

Non avevo mai sentito una persona esprimersi in modo così particolare, al di fuori della normale forma discorsiva. Era come se recitasse, come se affrescasse le frasi, un dono che, come pittore, non potevo che apprezzare.

«Un giorno afferrai il coraggio a due mani e gli espressi apertamente la mia sensazione.

La domenica successiva non era alla stazione ad aspettarmi, e così pure la domenica seguente. Pensai che avesse cambiato il posto delle sue esposizioni e iniziai a cercarlo in ogni luogo in cui mi aveva immortalata nelle sue tele. Ma nulla, nessuna traccia di lui. Disperata, allargai le ricerche, presi a scandagliare tutte le sale da ballo situate nei paesi che si affacciavano sul lago, a setacciare ogni piazza dei borghi in cui si tenevano feste, sagre, convegni. Ma ogni tentativo si rivelò un fallimento. Poco per volta mi resi conto che il mio sospetto fosse la realtà del nostro rapporto: gli interessavo solo nelle sembianze di modella, non mi voleva accanto a sé come persona! Allora smisi di cercarlo.

Ma io non riuscivo a capacitarmi che fosse finito tutto così all’improvviso, io l’amavo, io sarei stata disposta per tutta la vita a essere un frammento, uno sparuto, fuggevole miraggio impresso nei suoi paesaggi! Non ho fatto in tempo a dirglielo e, con il passare dei giorni, il mio ritardo è diventato una colpa, un assillo, un’ossessione che a poco a poco mi ha rovinato la vita. Ho abbandonato tutto e tutti: famiglia, carriera, amicizie. Ogni mattina salgo sul primo treno, vengo qui, nel luogo in cui ci siamo conosciuti, mi stendo su una panca e aspetto, aspetto... non è semplice far morire la speranza!»

Avevo osservato i suoi indumenti sciatti, così in contrasto con l’armonia delle sue fattezze, mentre si allungava nuovamente sul sedile. Ero rimasto in attesa ancora alcuni istanti, indeciso su cosa fare, poi avevo compreso che la conversazione era da considerarsi conclusa e mi ero avviato verso l’uscita con una tristezza infinita nel cuore.

Prendevo raramente il primo treno della giornata in direzione di Rivachiara. Solitamente la mia corsa era in tarda mattinata ma nella direzione opposta, verso il mio studio cittadino, e mi recavo direttamente sul marciapiede del binario due senza passare dalla sala d’attesa. La domenica in cui avevo incontrato la ballerina infelice, era stato il caso che mi aveva indotto a salire sul primo treno del mattino verso il paese. Avevo dormito in città, a casa dei miei genitori, perché un cliente si era fermato nello studio fino a tarda sera per osservare e scegliere alcuni tra i miei dipinti.

Il giorno seguente al casuale incontro con la bella disperata, come tutte le mattine, mi ero recato alla stazione in attesa della mia corsa verso Milano. La giovane donna era già nella sala d’attesa e scrutava la piazza nella speranza di scorgere il suo pittore.

Così fu per un lungo periodo di tempo. Quella visione mattiniera era diventata talmente abituale che, alle volte, in viaggio verso la città, mi attardavo a indugiare col pensiero sulle mosse della sua giornata.

Mi immaginavo si adagiasse languidamente ora su una, ora sull’altra delle due panche poste lungo i muri della sua nuova palestra, e che durante ogni trasferimento provasse un nuovo passo di danza, una giravolta, un avvitamento voluttuoso, propiziatore al ritorno del suo amore. Percepivo il volo del suo cuore verso la finestra a ogni risuonare di un bisbiglio esterno che avesse i toni di quella prima frase sussurrata dal suo pittore.

Pur ignorandone il nome, era entrata nei miei pensieri a tal punto che spesso mi chiedevo cosa avrei provato il giorno in cui avessi trovato vuota la sala d’aspetto, ormai divenuta la stanza dell’attesa fatta persona. Quando era arrivato quel giorno, era diventata la sala della mancanza, facendomi capire come anch’io, pittore di colorati sentimenti, mi fossi tiepidamente innamorato di lei.

Ancora oggi mi è difficile comprendere per quale motivo non avessi liberato l’impulso di fermarmi una mattina per chiederle di venire con me e diventare la mia modella, non di paesaggi ma di emozioni.

So che non troverò mai una risposta. Una cosa è certa: per molto tempo ogni viaggiatore che abbia varcato la soglia della minuscola sala d’aspetto interna alla stazione di Rivachiara, si sarà sentito osservato da due malinconici occhi verdi come il mare di Croazia. Allargando lo sguardo sull’intero dipinto, sarà rimasto conquistato dall’espressività emotiva di una donna dal volto angelico vestita di cenci, le cui braccia, abbandonate verso il pavimento, sfioravano la cornice del dipinto. Ignaro di chi fosse l’autore, qualche più sensibile osservatore avrà avuto la sensazione di essere rapito dai verdi fondali impressi nel suo sguardo, piuttosto che dalle forme desiderabili del suo corpo.

Ricordo ancora quanto avrei voluto che tale impressione, non comune ai più, potesse essere trasportata dalla tramontana mattiniera del lago fino a raggiungere la bella innamorata delusa, comunicandole come, in un dipinto di un ignoto pittore, fosse la sua anima a fare da modella."


Da Io dipingo e tu scrivi



© Cesare Ferrari

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